Documento del Direttivo sull’inviolabilità del diritto di difesa

Negli ultimi giorni su diverse testate sono comparsi articoli che, commentando alcune affermazioni fatte dall’avvocato Giosuè Bruno Naso in una arringa difensiva avanti alla Corte di Appello o in alcuni interventi nel corso del processo avanti alla Decima Sezione del Tribunale di Roma noto come “Mafia Capitale”, hanno avuto ad oggetto anche il ruolo di un giornalista nello sviluppo e nella rappresentazione mediatica di alcune indagini.
Commentando le affermazioni del penalista, diversi giornalisti le hanno censurate fino a rappresentarle come una vera e propria minaccia, anzi come un messaggio mafioso lanciato dal difensore in nome e per conto dei suoi clienti. Indicativi, sotto questo punto di vista, sia alcuni titoli, come “Se la difesa diventa una minaccia”, comparso nel numero in edicola del settimanale l’Espresso, ovvero “Mafia capitale: minaccia in aula contro un cronista”, apparso su La Repubblica, sia alcuni passaggi degli stessi articoli in cui si parla di “pratica aberrante”, di “allusioni velate”, di “minacce e offese”, fino ad accusare il difensore di “lasciare intendere di conoscere gli spostamenti del giornalista, e del procuratore e le persone che frequentano: un modo per ammonirlo a non fare il suo mestiere, altrimenti..”.
La questione è montata a tal punto da sfociare in una iniziativa della Federazione della Stampa e dell’Ordine dei Giornalisti che, sempre stando a quanto si legge in uno degli articoli in questione, avrebbero rivolto un appello al Presidente del Tribunale di Roma, al Procuratore della Repubblica ed al Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, affinché “adoperino la loro autorevole influenza per impedire che all’interno dei processi si delegittimi il difficile compito di questo giornalista e degli altri che, come lui, forniscono ai cittadini elementi su fatti di evidente interesse pubblico”.
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L’avvocato Naso non ha bisogno di difensori e saprà reagire alle insinuazioni gravissime che gli sono state mosse: e ciò tanto per le tesi che ha avanzato in giudizio, quanto per i modi ed i termini che ha utilizzato.
Quel che invece merita una risposta chiara e netta da parte della Camera Penale di Roma è che questa vicenda è l’ennesimo capitolo di una questione che prescinde totalmente dalle attività di questo o quell’avvocato, ma rischia di rendere impraticabile – poiché pubblicamente additato al disprezzo, se non alla persecuzione penale – lo stesso diritto di difesa quando questo, nel suo concreto esplicarsi, entri in rotta di collisione con quello che già da tempo si definisce il “complesso mediatico-giudiziario”.
Se, nel nostro Paese, nel corso di una arringa con la toga sulle spalle in difesa di un cittadino, diventa impossibile censurare – anche con forme ruvide e parole aspre – lo sviluppo di una indagine ovvero denunciare l’illegittima diffusione di notizie coperte dal segreto e l’innaturale rapporto tra circuiti investigativi e stampa, ciò vuol dire che è stato abrogato nei fatti quel diritto “inviolabile” solennemente sancito nell’articolo 24 della Costituzione.
Ed allora bisogna dire chiaro e forte che la libertà della difesa è massima e gli avvocati, nell’esercizio del loro ministero, godono del massimo della libertà di parola sin dall’epoca fascista, al punto che secondo il codice penale Rocco, le eventuali offese alla reputazione altrui non sono neppure punibili; se tutto ciò viene meno, vuole dire che il diritto di difesa è morto.
Il fatto è che, piaccia o no, la libertà di espressione del difensore è incomprimibile, perché il diritto di difesa è, nella scala dei valori costituzionali, sovraordinato rispetto ad altri diritti, persino a quello che tutela il buon nome e la reputazione.
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Ma è evidente che i termini della questione sono altri e che essa non può essere risolta limitandosi alla polemica, da un lato, per un nome storpiato durante una arringa e, dall’altro, per l’enormità di una accusa di “intimidazione mafiosa”, sol perché un avvocato si scaglia contro metodi di indagine che includono rapporti privilegiati tra alcuni circuiti investigativi e taluni giornalisti, visto che tanto l’una che l’altra accadono ogni giorno, anzi decine di volte al giorno, sia nelle aule giudiziarie che sulle pagine dei giornali; e ciò autorizza a ritenere che tutta la vicenda altro non sia che una montatura orchestrata per fini corporativi.

Tanto più che chi, come in questa occasione, grida allo scandalo, lo fa – guarda caso – pochi giorni dopo che la Camera Penale di Roma ha presentato una querela per diffamazione nei confronti del medesimo giornalista, per aver accomunato gli avvocati penalisti ai mafiosi, sol perché avevano scioperato per tutelare il diritto degli imputati di quel processo ad essere fisicamente presenti in aula.
La verità è che l’identificazione tra gli avvocati difensori ed i loro clienti, e persino le denunce di pretesa “mafiosità” dei difensori, non sono tanto appannaggio di un singolo avvocato, a seconda di quel che dice dentro o fuori dell’aula, ma rappresentano piuttosto una sorta di riflesso ideologico di segno autoritario, ispirato da una visione illiberale che identifica la difesa, l’imputato ed il reato, in un tutt’uno indistinguibile e turpe; ciò in un panorama della stampa nazionale nel quale – sia detto en passant – risulta “disperso” , già da decenni, il valore, anche culturale, della presunzione di non colpevolezza.
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In realtà, come si diceva, questo è l’ennesimo capitolo di una mutazione genetica nel rapporto tra giustizia ed informazione, che la Camera Penale di Roma ha già denunciato, con forza, proprio con riguardo alle vicende del così detto processo “Mafia Capitale”.
Quando l’informazione, o meglio alcuni giornalisti o alcune testate, si arruolano sotto le insegne di taluni uffici giudiziari, o di certi organi di polizia, quando la violazione delle regole sulla pubblicazione degli atti, invece che pratiche vietate dal codice di procedura penale, diventano medaglie al valore della informazione, quando, insomma, il Quarto Potere si identifica con quello giudiziario, e da questo viene reso immune attraverso la rinuncia a perseguire comportamenti illeciti, è fatale che i campioni di questa maniera di intendere l’informazione, forti della loro impunità assoluta, reclamino anche la persecuzione di chi osa criticarli, invocando, alla fine dei conti, il reato di lesa maestà.
Questo porta a sollecitare, proprio come anticipato, che la magistratura, requirente e giudicante, o addirittura il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati impediscano che “all’interno dei processi si delegittimi” il compito del giornalista in questione. Il che vuole dire, in altre e più semplici parole, che si chiede di impedire agli avvocati di parlare quando hanno da criticare qualcosa che abbia anche lontanamente a che vedere con il tema del rapporto fra informazione ed indagini.
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Una pretesa assurda, tanto più che non tiene conto che, nell’aule giudiziarie in cui i fatti che oggi tanto scandalo hanno sollevato, erano già presenti gli “arbitri” del giudizio, cioè proprio i magistrati dei collegi giudicanti, che evidentemente non hanno assistito né ad intimidazioni né ad altre dichiarazioni censurabili, non essendo neppure intervenuti.
Una pretesa insensata, ed in fondo anche stravagante, visto che – per dirla con il giornalista Massimo Bordin -“non si può negare ad un avvocato il diritto di descrivere dal suo punto di vista il clima di una inchiesta, tanto meno equiparare la critica all’atteggiamento dei media a una intimidazione o, peggio, a una minaccia.. occorre evitare l’identificazione fra l’avvocato e il suo assistito basandosi sulla impostazione della difesa”.
Una pretesa comunque inammissibile, ispirata da una visione che criminalizza il diritto di difesa, pretende avvocati obbedienti alla morale comune trionfante sui media ed al conformismo ossequioso nei confronti delle istanze punitive dello Stato.
Una pretesa che i penalisti romani respingono fermamente e rimandano al mittente, come sicuramente dovranno fare le istituzioni dell’Avvocatura, con tutta la forza di chi crede che la funzione degli avvocati debba essere pienamente libera, proprio perché i difensori hanno nelle loro mani la tutela della libertà dei cittadini.

Roma, 7 febbraio 2016

Il Direttivo

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